Taviano

Vieni, c’è una casa nel bosco

Quando ero bambino e poi ragazzo, il ferragosto tradizionalmente era una festa familiare. Una famiglia viva e allegramente sgangherata, un rumoroso vociare in fiorentino, con liti, partite a carte, esplorazioni nel bosco e avventure di pesca a mani nude nel torrente, sfuggendo ai guardacaccia.

Al centro di tutto c’era una casa allora già mezza diroccata, abbarbicata all’appennino toscano, lungo la strada che porta a Porretta. A Taviano, per essere più precisi. Una decina di case intorno al Limentra, piccolo fiume ricco di trote, broccioli, rane e girini. Oltre che di una bella pozza profonda e gelata in cui tuffarsi, proprio sotto il ponte della provinciale. Non vi immaginate chissà che. Era tutto in scala: la casa, il torrente e pure il ponte. Ed era tutto così forestiero per me, che ero cresciuto in città e che soffrivo, allora come oggi, la troppa natura e i troppi insetti (ragni soprattutto). Continue reading

Immagine

Attì

Sei entrato nella nostra vita insieme agli anni Novanta. Rumoroso, pittoresco e sgrammaticato come un picaro all’arrembaggio di signore danzanti nei night di periferia. La sigaretta in bocca e quel tuo accento di siciliano mai completamente adattato alla compostezza di questa città ancora grigia. Troncavi le parole con accenti fantasiosi, come le grafiche delle tue camicie sempre un po’ oltre il limite del buongusto.

Eri generoso, questo sì, e pronto a dare una mano, fosse una passata di vernice su un muro di cartongesso appena tirato su o una traccia da scavare in un muro per posare dei fili elettrici. Eri ricco di aneddoti, di esperienze di vita ai limiti del romanzo, che ci raccontavi ridendo e sbuffando fumo fra colpi di tosse. I soldi spesi per la bella vita, i tanti guadagnati più o meno onestamente e spesi fra bottiglie di champagne, night club e macchine (“tutto il resto l’ho sperperato”, avresti commentato se solo avessi conosciuto la storia di George Best). Continue reading

Pinocchio il burattino. Quello vero

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Intanto, una premessa. Pinocchio per me è LA fiaba. Non UNA fiaba, non una storiella. Da fiorentino figlio di fiorentini Pinocchio lo si legge con lo stesso rispetto riservato a Dante. Perché Collodi ha scritto una favola in cui c’è dentro tutto, anche a distanza di quasi 150 anni. C’è la povertà, quella vera, quella di chi non mangia. Di chi si vende la giacchetta per un abbecedario. C’è l’avarizia. C’è la cattiveria. Ci sono bambini impiccati, “mutanti”, ingoiati da mostri marini. C’è un padre che lotta per ritrovare il suo figliolo senza sosta e con vera disperazione, allontanandosi se volete dall’immagine della genitorialità dell’800, tutta severità, distacco e durezza.
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White metal roller door shutter background and texture .

Non si sa mai…

Quando ero bambino mia madre aveva delle fissazioni. Una era quella delle tende alle finestre. Mia madre non poteva vivere senza tende alle finestre. Era semplicemente inammissibile. “Chiudi le tende”, mi diceva sempre, ché ci guardano tutti dentro”. Io non capivo. Abitavamo al primo piano e il palazzo di fronte era sufficientemente lontano per evitare sguardi indiscreti. A meno che, certo, qualcuno non si fosse proprio impegnato a uscire sul balcone e a strizzare gli occhi per carpire un po’ della nostra intimità. Che poi, voglio dire, non è che ci fosse chissà cosa da osservare. Eravamo una famiglia semplice, pure troppo. Con molti casini, ma nessuno dei quali poteva essere scoperto con un semplice sguardo dalla parte opposta della strada. Eppure, “chiudi le tende, ché ci guardano tutti dentro” era il suo mantra ogni volta che mi affacciavo su via Domodossola, o che semplicemente aprivo una finestra per lasciar passare un po’ d’aria.

L’altra mania era quella della pulizia di calze e mutande. Per carità, una cosa buona e giusta da insegnare, soprattutto quando hai un figlio maschio di tredici anni non proprio naturalmente attento a questo tipo di particolari . Ma era la motivazione a essere spettacolare. “Hai cambiato le mutande e i calzini?”, mi chiedeva sempre mia madre ogni volta che uscivo di casa per un nuovo giorno di scuola. “Non sai mai che può succedere”, aggiungeva subito dopo. E no, non si riferiva a chissà quale mirabolante avventura sessuale che poteva attendermi a ogni angolo di strada, realizzando finalmente i miei sogni di adolescente maschio. “Non sai mai che può succedere” significava “metti che ti ricoverano al pronto soccorso, vuoi che ti vedano con la biancheria sporca? Cosa penserebbero di tua madre?”. La prima preoccupazione, del resto, di chiunque venga caricato su un’ambulanza e spedito in fretta e furia in ospedale.

Eppure, quando mi capitò sul serio, fu il mio primo pensiero. Quando a vent’anni o giù di lì mi spaccai la fronte al mare, tuffandomi da uno scoglio dopo aver calcolato male il rischio, mentre mi caricavano a Camogli per essere portato a Genova per una tac, mi trovai a pensare “meno male che sono in costume e maglietta e tutto sporco di sale. Pensa se avessi avuto mutande o calzini sporchi”.

Oggi queste sue manie le riscopro dolcemente in me stesso. Quando entro in una casa nuova e vivo con le persiane abbassate finché non compro le tende per le finestre. O quando ricordo ai miei figli di cambiarsi ogni giorno, “perché non si sa mai”. È questo che ci resta dentro dei nostri genitori quando non ci sono più. Certo, gli insegnamenti di vita, le grandi lezioni in negativo e in positivo, gli esempi da seguire o evitare. Ma anche le loro assurdità, i loro punti deboli, le loro fisse, che ti tornano alla gola e alla mente quando meno te l’aspetti. E su cui ridi, prima di intristirti.

Però vedi mamma, sono importanti anche loro. E ti ringrazio per il pudore che mi hai insegnato in queste piccole cose, perché mi fa pensare a te, ogni volta che tiro una tenda o mi cambio la mattina. Per non farmi spiare e perché non si sa mai, pensa un po’.

Vaìa

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Mazzola: “La nostra nazionale? Era granata e vinceva al di là del mare”

Valentino Mazzola, lo storico capitano del Grande Torino e della Nazionale italiana campione del mondo nel ’50, è morto oggi nella sua casa di Milano all’età di 86 anni. Lo ricordiamo con l’ultima intervista che ha rilasciato al nostro giornale, qualche anno fa, in occasione del cinquantesimo anniversario del mondiale brasiliano.

Ci sono uomini il cui fascino non tramonta mai. Giganti che hanno fatto la storia del nostro paese. Che hanno unito un popolo spingendo su un pedale o dando un calcio al pallone. Che hanno scritto pagine di storia, non soltanto sportiva. Come Valentino Mazzola, il “Capitano”. Con la c maiuscola, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Oggi, in occasione del cinquantesimo anniversario del trionfo brasiliano ci ha aperto la porta di casa sua, a poche decine di metri da corso Como, dove si trova anche la sede dell’azienda di famiglia.
Valentino Mazzola ha i capelli radi e candidi. Le spalle si sono incurvate ma la forza dei muscoli pare ancora guizzare sotto al tessuto della camicia che indossa, rigorosamente bianca. Osservi i suoi occhi e capisci che lo sguardo è rimasto quello deciso dell’uomo che portò il Torino sulla vetta dell’Italia sportiva per dieci campionati consecutivi. E l’Italia sul tetto del mondo, quando ancora buona parte del paese era piena di macerie. Continue reading

Chiamami ancora Maurizio

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È difficile contenere mia madre in poche righe, perché era fatta in un modo tutto suo. Era irruente, non contava mai fino a dieci prima di parlare, non era capace di raccontare una bugia o di mantenere un segreto ed era la persona più impulsiva che abbia mai conosciuto. Io e Claudio dicevamo sempre che di quello che raccontava la mamma bisognava fare la tara, perché lei era capace di piegare la realtà in base ai propri desideri.

Se usciva un mio articolo su un giornale, per esempio, per parenti e amici ne diventavo automaticamente il direttore. C’è stato addirittura un momento, quando ero in fasce, in cui pensando al mestiere che avrei fatto le venne il dubbio di come chiamarmi se fossi diventato Papa: era indecisa fra Maurizio e Santità. Era il suo modo di affrontare le difficoltà, di superare i problemi, di ignorare ciò che non voleva vedere, anche se glielo piazzavano davanti agli occhi. Era il suo meccanismo di difesa.

Abbiamo avuto i nostri momenti difficili, io e mia mamma. Abbiamo litigato tanto, soprattutto quando ero giovane e pensavo di aver già capito tutto della vita. Poi, grazie a Dio, invecchiando e accumulando errori ho compreso che quella che confondevo per incoscienza era solo la sua fortissima voglia di vivere. Nonostante i problemi, le crisi, le malattie.

C’è una frase di Samuel Beckett che su mia madre calza a pennello: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò ancora. Fallirò meglio”. Per questo molto, troppo è stata giudicata. Eppure ogni volta ha saputo rialzarsi, migliorandosi. Nella sua vita è stata tante cose e sempre ha dimostrato un’incrollabile curiosità. Negli ultimi anni, quelli segnati a più riprese dalla malattia, è stata volontaria della Croce Rossa, tata e cartomante. Ha fatto il suo primo volo in aereo e ha scoperto il Buddhismo, in cerca di quella pace interiore che non ha mai davvero trovato. Solo un mese fa progettava di comprarsi un camper e andarsene in giro con Attilio, “perché non possiamo mica starcene qua come due vecchi”, mi diceva.

Io la fissavo stupito e ogni volta imparavo qualcosa su di lei, e su di me. Perché i genitori ci plasmano nel profondo, nel bene e nel male. E i nostri, col loro essere tanto distanti fra loro, ci hanno donato un’infinita gamma di sentimenti e capacità. Adesso che è finalmente venuto il tempo del riposo, mamma, ti prometto che terrò viva la fiamma della tua allegra follia e racconterò il mondo come lo desideri e non com’è davvero. Me lo hai insegnato tu: è tutto così difficile per poter essere affrontato con troppa serietà. E se mai diventerò Papa, potrai chiamarmi ancora per nome. Te lo sei ampiamente meritato.

Vaìa

Chiedimi cos’è la felicità

Maratona di Roma 2017
2 aprile, Maratona di Roma 2017, quarantesimo chilometro

È stato quando ho superato il quarantesimo chilometro che ho realizzato di avercela fatta. È stato quello il momento in cui ho capito che ogni volta che avevo corso senza averne voglia, col freddo, con la pioggia, con le gambe rotte… ogni volta era servita ad arrivare fino a quell’esatto istante.

Non sentivo la stanchezza, non vedevo niente intorno. Percepivo il vociare della gente. Osservavo la schiena di quello davanti e mi sentivo svuotato, come se dalla punta dei capelli a quella delle scarpe non ci fosse più niente. Solo due gambe che si muovevano da sole. E una mente che pensava e pensava e pensava.

Pensavo al giorno in cui ero partito per questo viaggio e ridevo per l’idea folle che mi era venuta. Pensavo a mio padre, che mi manca ogni istante da due anni, anche se lo avevo sentito vicino a me in ogni centimetro di strada. Ricordavo le volte che durante i lunghi avevo fatto in modo di finire ad allenarmi vicino a dove riposa, per raccontargli tutto. E, chino sulle ginocchia, me lo immaginavo guardarmi stupito e preoccupato (“Ma un ti farà male? Stai attento!”).

Pensavo a mia madre, che cerca pace nella guerra. Che ogni giorno affronta la sua battaglia quotidiana con un po’ più di stanchezza e sempre meno ironia. E che pure è la stessa che solo qualche minuto fa mi portava al cinema ogni sabato, a vedere i cartoni animati e i film di Bud Spencer. O che senza volere mi tingeva di rosa le magliette più alla moda (“Dai, non si nota…”), quelle che era tanto raro riuscire a compare.

Pensavo a chi non c’era e che invece avrei voluto vicino. E pensavo anche a me, che ero morto un’estate di tanti anni fa e poi rinato più forte, più veloce, più determinato. Così, mentre la strada scorreva via fradicia d’acqua, un piede via l’altro, capivo che tutto andava dove doveva andare. Che ogni tessera aveva il suo posto numerato. E che io ero proprio nel bel mezzo del disegno che si stava componendo. Felice e dolorante. Tanto felice da non incazzarmi nemmeno per il pensiero retorico che ero riuscito a partorire, chiaramente per colpa delle endorfine.

Quello che a tutti sembrava un ghigno di fatica era il mio più bel sorriso. “Tutto andrà bene”, mi ripetevo. “I problemi si risolveranno. Le decisioni giuste verranno prese e avrai una vita piena e soddisfacente. Basterà non fermarsi mai”. Ancora un chilometro e un altro ancora. E un altro, ancora.

Vaìa

A bocca aperta

Forse stai ancora lavorando,
da qualche parte.
Gli occhi a fessura
per il fumo dell’ennesima sigaretta
(adesso non può più farti male).
Una musica sullo sfondo.
Gli attrezzi ordinati sul bancone,
come gli strumenti di un medico.
Le tue mani grandi sanno dove toccare
e creano forme dal nulla.
Io ti guardo a bocca aperta.
Non ho più un’età.
Non ho pensieri, né paure.
Nulla mi tocca.
Sono solo un bambino,
che è orgoglioso di te.
Sono ancora un bambino,
che ha bisogno di te.