Quando ero bambino e poi ragazzo, il ferragosto tradizionalmente era una festa familiare. Una famiglia viva e allegramente sgangherata, un rumoroso vociare in fiorentino, con liti, partite a carte, esplorazioni nel bosco e avventure di pesca a mani nude nel torrente, sfuggendo ai guardacaccia.
Al centro di tutto c’era una casa allora già mezza diroccata, abbarbicata all’appennino toscano, lungo la strada che porta a Porretta. A Taviano, per essere più precisi. Una decina di case intorno al Limentra, piccolo fiume ricco di trote, broccioli, rane e girini. Oltre che di una bella pozza profonda e gelata in cui tuffarsi, proprio sotto il ponte della provinciale. Non vi immaginate chissà che. Era tutto in scala: la casa, il torrente e pure il ponte. Ed era tutto così forestiero per me, che ero cresciuto in città e che soffrivo, allora come oggi, la troppa natura e i troppi insetti (ragni soprattutto).
Ogni ferragosto si arrivava chi da Torino, chi da Firenze, chi da dove voleva, per ritrovarsi intorno alla matrona di famiglia, mia nonna Maria, mamma di cinque fratelli e un tempo commerciante di quadri e altre opere d’arte a Firenze. C’era Mario, mio babbo. C’era lo zio Walter, dallo sguardo furbo e la battuta pronta, lo zio Luciano, coi capelli bianchi ma ancora poeticamente ribelle, e la più giovane del gruppo, zia Patrizia. Con annessi cugini in abbondanza. Mancava sempre il leggendario zio Franco, uccel di bosco da anni, sposo per corrispondenza e creatore della casa di bottiglie che campeggiava in giardino.
Si giocava all’aperto, si pescava, si litigava, si giocava a carte e si rilitigava per un asso calato male o una scopa fortunosa. Si preparavano tortelli e si mangiavano con un ragù toscano ristretto come si deve. Il tutto condito dal vociare popolare del fiorentino. Da qualche bestemmia, da battute fulminanti e da prese in giro precise come coltellate, ma mai cattive.
Si finiva sempre intorno a due o tre argomenti. Oltre al calcio e al lavoro, la politica, ovviamente. Con mio babbo comunista così, alcuni zii socialisti (avrebbero poi fatto in tempo a ritrovarsi insieme sotto le bandiere dell’Ulivo molti anni dopo) e altri con sprazzi democristiani o con la semplice voglia di far polemica che ha sempre contraddistinto quella parte di famiglia. E si percorreva sempre la solita strada che gira e rigira portava mia nonna a ricordare “que’ poveri figlioli” fascisti fucilati in piazza a Firenze subito dopo la liberazione. Ragazzi che chiamavano mamma mentre andavano al muro.
“E che non chiamavano mamma quegli altri, che avevano ammazzato prima loro?”, urlava puntuale come un campanile svizzero mio babbo. E giù a litigare. Finché gli animi si calmavano… prima che tutto ripartisse per una battuta di mio zio Walter, impareggiabile maestro nel divertirsi a far (ri)esplodere liti a scoppio ritardato. Bastava un “Poveri figlioli, però”, sussurrato dopo qualche minuto di silenzio e con un ghigno da professionista, perché tutto ripartisse da capo. Finché qualcuno non usciva di casa e si metteva a fumare o a passeggiare, per calmare i bollori.
Quest’anno ferragosto l’ho passato con mio fratello, l’unica parte che mi è rimasta davvero di quei giorni lontani. Troppi se ne sono andati, alcuni troppi presto. Alcuni son rimasti anche se ci si vede poco, ma con un affetto mai scalfito dalla distanza. Oggi qua al mare, come ogni anno ormai da una vita, ho ripensato a quelle giornate così intense, a quelle voci, a quelle discussioni. E come ogni volta mi è venuto da ridere.
“Poveri ragazzi, però”, ho pensato. E giù a litigare.
vaía
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