chinook

Il volo

Mi chiamo Manuel Righi, ho ventitré anni e ho imparato a volare. Sembra incredibile, lo so, ma è accaduto. Quando ripenso a come è iniziato tutto quanto mi sembra di finire sempre nello stesso stanco sogno. Di quelli che ti angosciano, perché si ripetono sempre uguali e alla fine non riesci a capire dove finiscano e dove inizi il risveglio. Tutta colpa delle percosse che mi hanno scaricato addosso, probabilmente. Mi hanno fatto perdere coscienza tante di quelle volte, per poi risvegliarmi con una secchiata di acqua gelida, che a un certo punto ho dimenticato anche chi ero e dove mi trovavo. Soprattutto ho smesso di chiedermi che cosa avevo fatto per meritarmi quel trattamento.

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Odino

Domande da porsi almeno una volta

Odino

Mentre guidava, un ghepardo kazako giunto non si sa come in corso Marche gli ha tagliato la strada, facendolo andare a sbattere contro un tir carico di butano. E’ stato in coma un anno, ma grazie a Dio ora riesce almeno a mangiare di nuovo con il cucchiaino.

Nessuno sa come abbia contratto quella rarissima malattia tropicale della pelle non segnalata dal 1723. Ma ringraziando il cielo le croste che lo hanno sfigurato sono quasi accettabili. Adesso assomiglia molto meno a un “clospereus androphilus”.

Ha vinto settanta quisquilioni di euro al superenalotto e oggi vive circondato dal lusso e da incommensurabili capolavori d’arte, mentre un esercito personale di 12 modelle dell’intimo gli spiega i piaceri della vita senza bisogno di sprecare parole. 

Ecco, questa è una cosa che mi fa impazzire. Perché con i miliardi di opportunità e sorprese che la vita ci riserva, le divinità (ognuno si scelga la propria) le ringraziamo solo quando si parla di sciagure a lieto fine di cui si avrebbe fatto volentieri a meno e mai per qualcosa che accetteremmo ogni giorno a braccia aperte?

Chiaro che se ringraziamo per le sfighe, sfighe avremo. Penseranno che ci piacciono. Iniziamo a ringraziare sentitamente e pubblicamente anche per le botte di culo, altrimenti non c’è verso: modelle e soldi avranno sempre la peggio.

Come dite? Non si registrano botte di culo da decenni? Tranquilli, ringraziando Odino prima o poi arriveranno.

Vaìa

10, come il numero dei poeti del pallone

Dieci

10, come il numero dei poeti del pallone

10, come il numero dei poeti del pallone.
10 come i comandamenti, per chi ci crede.
Come i piccoli indiani fatti fuori uno dopo l’altro.
10 come i sogni che non ho realizzato
e i chilometri di roccia su cui mi sono arrampicato,
fino a scorticarmi le mani e spaccarmi le unghie.
Dicono ci sia la discesa, subito dopo.
A me piace immaginarne l’odore,
è quello di un campo pieno di fiori,
di 10 specie diverse e colorate.
10 volte ho ripetuto gli stessi gesti,
stretto gli stessi denti
e masticato lo stesso amaro in bocca.
Serrato gli stessi pugni, ormai logori,
e socchiuso gli stessi occhi, aspettando la fine del giorno.
Dicono ci sia la discesa, subito dopo.
Cos’altro posso fare, se non fidarmi?
Ottimista per forza e per ragione.
Trapezista senza rete.
Eseguo il mio numero senza pensare che sono proprio io
quello che danza nel vuoto, da una sbarra all’altra.
Solo l’incoscienza aiuta a salvarsi
e l’ignoranza del pericolo.
Mentre volteggio a un pugno di metri dal suolo.
10, per l’esattezza.

Vaìa

Giovanni in fuga

Il sogno di Giovanni

Giovanni in fuga

A mio nonno.

Appena l’infermiera fu uscita dalla stanza, Giovanni si tirò un po’ su con le braccia, assestando sui gomiti il suo corpo di novantenne. Poi si guardò intorno con quei suoi acquosi occhi azzurri e tornò alla carica.
– Allora signori miei, chi ci sta lo deve dire adesso. Per quel che mi riguarda non ho intenzione di rimanere qua dentro un minuto di più. Questa sera io me ne vado. Chi viene con me?
Intorno a lui tre paia d’occhi lo fissavano sgranati. Il primo a rispondergli fu Niccolò, classe 1931, ex bidello ricoverato a Villa Gisella da due mesi per i postumi di un brutto intervento all’addome.
– Dio santo Giovanni, ma che fai? Ricominci a delirare? Non lo vedi che non sei buono neanche a rizzarti sul letto? E parli di scappare dall’ospedale! Dammi retta. In questo ospedale tu ci resti, altro che! E poi non si può mica andarsene così! Ci vuole un permesso del medico. Vistato dalla caposala, oltretutto. Ma non lo sai?

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babbi

Una storia di Natale

Ti ho riconosciuto subito. Inutile nascondersi dietro quel costume da Babbo Natale tutto sporco e sdrucito, con la barba grigio fumo e un vistoso paio di L.A. Trainer blu ai piedi. Ti ho riconosciuto eccome. Fa un freddo porco, oggi. Mancano pochi giorni alle feste e sono solo le otto di mattina. Il mercato è nel pieno delle attività. I banchi sono montati e i vicoli di Porta Palazzo sono già pieni di persone che brulicano come formiche impazzite alla ricerca di cibo. Quelli che vanno per la maggiore, a quest’ora, sono i pensionati. Una marea umana fatta con lo stampino, cappotto verde militare e cappello gli uomini, paltò nero e sciarpa cucita a mano le donne. Tutti soli, tutti senza una lira. Pronti a combattere corpo a corpo per un chilo di arance in offerta e bene attenti a buttare un occhio alla frutta gettata per terra e non ancora completamente marcia, ché non si sa mai. Ci sono anche parecchi bambini diretti a scuola, con o senza madre, ma quelli non si fermano mai, scelgono solo la strada più breve per attraversare la piazza.

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Trentanove

Oggi sono 39. Un numero strano, di quelli che alla fine non vogliono dire nulla di preciso. Un numero che non è carne né pesce. Non ha la calda rotondità del 38, che sornione ti lascia ancora un po’ di tempo prima di fare cifra tonda, né la severa maestosità di un 40. Netto, inequivocabile. Un confine varcato per entrare (finalmente?) nella maturità.
Eppure, intanto, zitto zitto a 39 io ci sono arrivato. E se fino a pochi mesi fa ci pensavo con crescente scazzo, contando i peli bianchi e i capelli che teneramente mi salutavano dalla ceramica bianca del lavandino, adesso ci rifletto – lasciatemelo dire – quasi con stupore. E con una voglia pazzesca di correre verso quel confine che solo poco tempo fa mi faceva inorridire, come un ingiusto preludio di vecchiaia. E poi ancora avanti veloce, fino all’estremo limite della senilità.

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Telefono

Se telefonando

Due uomini al bancone di un bar. Facce stanche, sguardi persi nel vuoto. Le giacche sono appoggiate sullo schienale delle sedie. Davanti a loro due bicchieri di birra che sorseggiano distrattamente. Uno si passa ripetutamente la mano sul volto. L’altro lo guarda un paio di volte, poi gli rivolge la parola.

- Problemi?
– Come?
– Dico, problemi?
– Perché?
– Ehi amico, non hai proprio la faccia di chi se la passa bene. Voglio dire…
– Si vede così tanto?
– Eh!
– No, è che stavo pensando a un mio amico.
– Cos’è, l’ha lasciato la fidanzata?
– No, per carità. E’ felicemente sposato.
– Allora ha perso il lavoro.?
– Macché… No, l’ha tamponato un tir, sulla tangenziale. Otto mesi fa giusti.
– Oddio! Mi scusi, che gaffe.
– Vabbè, no… non importa
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scarpe

Ventunomilanovantasette

Mi fanno male le gambe. E mi fa male la schiena. C’è come una piccola lama sottile che mi penetra a ritmo costante proprio sopra l’ultima vertebra lombare. Muovo le gambe, metto un piede davanti all’altro e lei… Zac! Zic! Zac! Un passo, una coltellata. Ma leggera, niente che mi impedisca davvero di correre. Per ora, perché domani quando cercherò di stare seduto per più di dieci minuti – o che so, di guidare – allora capirò davvero cosa sono il dolore e l’immobilità forzata. Come se non lo sapessi già.

Che poi non sarebbe neanche questo il male peggiore, tra un chilometro sarà tutto finito. Niente di che, se non fosse per la tua voce. La tua voce calda e sensuale. La voce di una donna dolce e vogliosa, con due labbra disegnate solo per me e un timbro roco il giusto, che mi implora di fermarti con lo stesso tono con cui sospirerebbe il mio nome, risalendo lenta lungo tutto il mio corpo, un centimetro dopo l’altro. Esalando sussurri che non ho nessuna voglia di decifrare. Non ora, almeno. “Fermati”, mi dice. “Riposati, io sono qua per te. Non hai bisogno di altro”. Riesci a immaginare la gioia di rallentare e di fermarti davanti a un albero, a una fontanella o anche solo a un lampione qualsiasi? Di piegarti e appoggiare le mani sulle ginocchia, per rifiatare e fare la conta delle ossa e dei muscoli sopravvissuti?

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