Il volo


Mi chiamo Manuel Righi, ho ventitré anni e ho imparato a volare. Sembra incredibile, lo so, ma è accaduto. Quando ripenso a come è iniziato tutto quanto mi sembra di finire sempre nello stesso stanco sogno. Di quelli che ti angosciano, perché si ripetono sempre uguali e alla fine non riesci a capire dove finiscano e dove inizi il risveglio. Tutta colpa delle percosse che mi hanno scaricato addosso, probabilmente. Mi hanno fatto perdere coscienza tante di quelle volte, per poi risvegliarmi con una secchiata di acqua gelida, che a un certo punto ho dimenticato anche chi ero e dove mi trovavo. Soprattutto ho smesso di chiedermi che cosa avevo fatto per meritarmi quel trattamento.

Anche adesso che è passato tanto tempo, per dire, la mia mente si rifiuta di restare lucida. Non ricordo bene i particolari. Nel mio strano sogno, dicevo, mi sembra di essere sveglio. Gli ambienti sono vividi e le sensazioni tanto intense da bruciare. Ora come ora ricordo soltanto che quando è successo tutto quanto non ero a casa mia. Mi trovavo in una specie di stanzino stretto e buio: lo scompartimento di un treno o l’interno di un autobus. Alla mia destra c’era un piccolo finestrino, completamente oscurato dalla notte, e di sottofondo un rumore continuo e ovattato, che mi martella le orecchie. Un ronzio persistente, come le fusa di un gatto enorme.

Non ero solo, no. Di questo sono certo. Intorno a me, in piedi o sedute su panche di legno, ci sono figure alte, vestite di nero, che mi ripetono di stare calmo e di non agitarmi, con un tono monocorde e privo di espressione. Ma non ce n’è bisogno, davvero. Io non sono preoccupato. Il mio cuore è placato, il battito quasi assente e la mia mente lucida. Sono stato sbattuto a terra senza troppi complimenti e un leggero torpore mi ha invaso braccia e gambe, piegate da troppo tempo nella stessa posizione. Però sono curioso, questo sì, di capire dove sto andando e soprattutto su che mezzo mi stanno trasportando. Non sembra procedere su rotaie o su strada. A volte si piega leggermente su un fianco, proprio come una barca in mezzo al mare, ma più dolcemente. Quando succede il mio corpo viene sballottato nella stessa direzione, come un pacco dimenticato in un furgone vuoto.

Ricordo che qualcuno ha spalancato una porta, o qualcosa di simile, e l’aria fredda della notte mi ha colpito in faccia a tradimento, con una forza di cui non la credevo capace. Guardo sorpreso quello squarcio nel buio assoluto della notte, mentre due uomini mi sollevano per le ascelle. D’improvviso mi ritrovo sospeso nel nulla, leggero come una piuma, e l’aria si fa violenta e ancora più gelida. Se guardo in alto posso vedere l’elicottero su cui viaggiavo – un elicottero! ecco cos’era! – diventare sempre più piccolo, mentre la terra si avvicina veloce e il paesaggio a est, sopra le montagne, sembra schiarito dalle prime luci dell’alba e acquista forma e colore. Sotto di me intravedo le luci della costa, con i piccoli paesi di pescatori e i campi coltivati appena più all’interno, mentre le macchine sfrecciano sulla superstrada, con i fari accesi. Le onde del mare, con i loro spruzzi bianchi, mi arrivano tanto vicine che posso quasi sentirne le gocce sul viso.

È in quel momento che inizio a volare. Mi fermo a mezz’aria e do un’occhiata intorno. Nuoto in un inchiostro appiccicoso e nero, ma se alzo lo sguardo oltre il mare e le case dei contadini, riesco ad andare oltre il limite dell’orizzonte, verso la luce. E tutto diventa di nuovo nitido. Posso vedere il negozio di frutta vicino alla mia casa di studente. L’università con i miei compagni ora grandi, le barbe rasate e i giornali sotto il braccio. Macchine di tutti i colori, belle e luccicanti come in un depliant americano. Uomini e donne eleganti, indaffarati, veloci, vestiti in modo che mi fa ridere di gusto. I grandi viali alberati della mia città pieni di negozi tutti nuovi e addobbati a festa, e nessun soldato in vista fino alla piazza principale. E là nel mezzo, dritta e fiera nel suo vestito della festa, la figura familiare di mia madre. Alla luce abbagliante del sole sembra ancora più vecchia di quando l’ho lasciata, quella mattina di marzo, senza sapere che non avrei più fatto ritorno. Se ne sta in piedi, immobile, col suo foulard a fiori in testa a ripararle i capelli e una mia fotografia fra le mani. È insieme ad altre donne e urla con tutta la forza dei suoi polmoni malandati. Io non posso sentirla, vedo le sue labbra che si muovevano e che paiono scandire il mio nome, lettera dopo lettera. Tutto intorno, la gente passa e le lancia solo una rapida occhiata infastidita, prima di proseguire.

Non sono mai tornato a terra. Ancora oggi mi chiedo perché il mio sogno sia proseguito con tanta ostinazione o perché sia rimasto sospeso quassù per tutto questo tempo. Volo intorno a questa domanda senza fermarmi, come un pipistrello che gira in cerchio vicino a un palo illuminato. Nella mia mente riemergono frammenti di sogno e di realtà. Rumori, odori, sensazioni, colori. Le persone che fanno finta di non vedere, mentre mi portano via con un sacco marrone calato sulla testa e le mani nei ceppi di ferro arrugginito. La luce intensa che usano per accecarmi durante gli interrogatori. L’offesa del dolore in ogni angolo della mia carne, pulsante come un liquido rovente nelle vene, e il verde delle piastrelle sbreccate dell’infermeria. La fantasia arancione del vestito di mia madre e i suoi occhi chiari, che non mi vogliono dimenticare. E poi quel rumore di sottofondo, quel ronzio cupo e regolare, che sento allontanarsi nel buio insieme a un elicottero militare verde e grigio, un attimo dopo essere caduto.

Vaìa

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