Una storia di Natale


Ti ho riconosciuto subito. Inutile nascondersi dietro quel costume da Babbo Natale tutto sporco e sdrucito, con la barba grigio fumo e un vistoso paio di L.A. Trainer blu ai piedi. Ti ho riconosciuto eccome. Fa un freddo porco, oggi. Mancano pochi giorni alle feste e sono solo le otto di mattina. Il mercato è nel pieno delle attività. I banchi sono montati e i vicoli di Porta Palazzo sono già pieni di persone che brulicano come formiche impazzite alla ricerca di cibo. Quelli che vanno per la maggiore, a quest’ora, sono i pensionati. Una marea umana fatta con lo stampino, cappotto verde militare e cappello gli uomini, paltò nero e sciarpa cucita a mano le donne. Tutti soli, tutti senza una lira. Pronti a combattere corpo a corpo per un chilo di arance in offerta e bene attenti a buttare un occhio alla frutta gettata per terra e non ancora completamente marcia, ché non si sa mai. Ci sono anche parecchi bambini diretti a scuola, con o senza madre, ma quelli non si fermano mai, scelgono solo la strada più breve per attraversare la piazza.

Io sono imbacuccato dentro un vecchio piumino Schott verde con il davanti foderato in pelle marroncina. Un berretto di lana in testa e le mani sempre in tasca, nonostante i guanti tagliati sulle dita. Le tiro fuori soltanto per caricare di patate e carote i sacchetti dei clienti. Perché il mio banco, o meglio quello dove lavoro per tirar su qualche spicciolo per le tasse universitarie e le sigarette, vende soltanto carote e patate. Immensi sacchi stracolmi di questi due adorabili doni della terra sono accumulati proprio dietro di me, appoggiati alle balaustre in metallo color topo che dividono la mia schiena dai binari del 4. Sì, perché il mio banco si affaccia proprio sulla via centrale di piazza della Repubblica, una ventina di metri prima della fermata degli autobus. Il luogo ideale per respirare merda tutto il giorno e sfasciarsi i timpani col rumore dei motori diesel e dei freni sferraglianti dei tram. Pina, il mio boss made in Puglia, è alta meno di un metro e sessanta. Uno scricciolo secco, muscoloso, tamarro e maleducato. Il prototipo della donna che scegliereste per interpretare con successo il ruolo di una teppista disadattata, che ogni mattina scende dalle estreme periferie della città col suo furgone scassato per vendere carote e patate – esclusivamente carote e patate – nel più grande mercato popolare di Torino. Io non so se si chiama davvero Pina o se è un qualche simpatico diminutivo. Non lo so e non me ne frega un cazzo. Io so solo che mi devo alzare ogni mattina alle 5 (alle 4 il sabato, che si inizia prima) e andare in quel maledetto banco al freddo e al gelo per vendere tonnellate di schifose carote arancioni crepate e dure come sequoie e di patate macchiate e bitorzolute che non se le accattano manco i pensionati del turno delle 8, nonostante le offerte irrinunciabili del nostro marketing di borgata. Tutto il resto, vero nome dell’aguzzina in testa, non mi interessa. Pina ha un’idea tutta sua di come si conduce un banco di verdura a Porta Palazzo. Una strategia che si può riassumere in un unico, sintetico comando: “Urla più forte che puoi!”. Ma non frasi qualsiasi, no. Slogan molto precisi, che lei ha messo a punto in anni di mercato. Io le odio, quelle cazzo di parole. Mi costringo a urlarle, anche se mi fanno schifo e mi fanno vergognare. Però, devo ammetterlo, gridare a squarciagola almeno aiuta a scaldarsi. E poi Pina è una che non si accontenta. A te pare di dare il massimo e lei sta lì a ripeterti “Non ti sento!”, come uno sfigatissimo animatore turistico, finché tu non inizi ad alzare davvero la voce, sgolandoti sempre di più. E alla fine senti il sangue che circola più velocemente nelle vene e ti sembra perfino di percepire un po’ di tepore sulla punta delle dita e nelle orecchie, rosse come semafori nella notte. Le frasi di Pina sono due. La prima ti prospetta una vita lunga e felice: “Mangia patate! Chi mangia patate non muore mai!”. La seconda è decisamente più iettatrice: “Mangia, che un giorno sarai mangiato”. Così quando mi capita di urlare quelle buona, la gente sorride, rallenta e prende perfino in considerazione l’idea di comprare un po’ della nostra merda per cena. Mentre quando vado con la seconda, spronato da Pina come un cavallo riottoso che non vuol saltare l’ostacolo, le persone sbarrano gli occhi e affrettano il passo. Gli uomini, poi, si danno anche una bella scrollata ai gioielli di famiglia, lo si vede lontano un miglio. Io ho anche provato a dirglielo a Pina, ma lei proprio non ci sente. Queste sono le due uniche frasi “creative” che ha sfornato in tutta la sua vita e proprio non ha intenzione di cambiarle, anche a costo di veder fuggire i clienti con i coglioni in mano. Ma lavorare al mercato ha anche i suoi lati positivi. Per esempio osservare la gente. Passano migliaia di facce ogni giorno e mentre cerchi un modo nuovo di scaldarti il naso ti puoi divertire a indovinarne il mestiere o la provenienza. Dopo un po’ capisci quali sono i clienti abituali. Chi va sempre a prendere le olive fresche due banchi più avanti o le cime di rapa arrivate ora ora da Cerignola, tre venditori sulla destra. Noi di clienti fissi non ne abbiamo. Pina dice che è colpa della gente, che segue le mode e vuol fare la sofistica, anche se credo intenda “sofisticata”. “Minchia, ormai tutti mangiano il “sùsci”, puttanadieva”, ama ripetere sempre Pina, quando qualcuno si allontana senza comprare nulla. “Puttanadieva” è il suo intercalare preferito. Lo ripete mentre serve, mentre risponde alle mamme ansiose (“Sono tenere le sue carote? Sono per la minestrina del mio bimbo”, “Tenere come il burro, puttanadieva!”), perfino mentre dà il resto, tanto che il più delle volte la gente manco capisce se è il conto è corretto o no. All’inizio ho anche pensato che fosse il suo cognome: Pina Puttanadieva. E che lei lo ripetesse ogni volta che poteva, per essere educata e presentarsi ai clienti. Poi conoscendola meglio ho capito che non era cosa e che il gelo gioca davvero brutti scherzi al nostro cervello.

Comunque, cosa stavo dicendo? Ah, sì. Che ti ho riconosciuto subito. Ti ho visto arrivare quella mattina, insieme a un tuo compare, vestiti uguali: abiti rossi con risvolti in finta pelliccia, barboni un tempo bianchi tutti biascicati e cappelli di lana sintetica, di quelli che ti seccano la pelle dopo dieci minuti che li indossi e ti fanno grattare come un cane rognoso per i successivi dieci giorni. Ti ho visto arrivare e non ho avuto nemmeno un dubbio, perché avevi gli stessi miei occhi, incazzati e stanchi. Per la levataccia, per il freddo che manco fossimo nel 1942 nel centro di Stalingrado e per la voglia di mandare affanculo senza giri di parole io la mia Pina Puttanadieva e tu il tuo procacciatore di lavoretti di merda rigorosamente part-time. Come quella volta che ci siamo trovati in macchina, sotto il sole a picco di luglio, per contare le automobili che passavano per le vie di Venaria. Un contatore analogico a tre pulsanti sulle ginocchia (uno per le auto, uno per le moto, uno per i camion) e tanta voglia di sbattere la testa sul parabrezza fino a perdere i sensi.
Anche tu mi hai riconosciuto. Non ti sei nemmeno stupito a vedermi annaspare in quell’oceano giallo e arancione. Se c’era un disperato che potevi incontrare in quel posto maledetto da Dio e dagli uomini non potevo che essere io. Hai lasciato il tuo compare al suo destino, ti sei avvicinato dondolando sulle gambe e hai tirato giù quella barbaccia lurida, biascicando un saluto. Ci siamo accesi una sigaretta, senza dire nulla. Un breve silenzio, seguito subito da poche parole.
–    Ehi.
–    Ehi.
–    Com’è?
–    Di merda.
–    Pure io.
–    Così vendi patate e carote, eh?
–    Già. E tu fai Babbo Natale.
–    Già.
–    Che fai? Foto e caramelle ai gagni?
–    Esatto.
–    Interessante.
–    Fanculo.
In quel momento, lo ricordo come se fosse successo ieri, è arrivato un ragazzino con la cartella in spalla. Uno di quelli tutti puliti e leccati, con la mamma-scorta a pochi passi di distanza. Uno di quei bambini poco cresciuti – cosa avrà avuto? Nove, dieci anni? – che ancora credono a Babbo Natale. Uno di quelli che quando sotto le feste vedono un disgraziato vestito a forza di rosso glielo leggi negli occhi che sono felici, perché possono parlargli. Possono parlare a BABBO NATALE! Era teneramente commosso, insomma. Commosso e sognante, almeno quanto quella psicologa mancata delle sua mamma, tutta orgogliosa per aver trasmesso al suo pargoletto tutta la magia di questa festa meravigliosa. Una mamma che se davvero avesse capito cosa passava nella nostra mente e nel nostro cuore quel bambino se lo sarebbe tenuto stretto al petto, fuggendo il più lontano possibile. Ma si sa, anche le mamme commettono errori. Le psicologhe più spesso di quanto si pensi.
–    Ehi?
–    Sì?
–    C’è un coso che ti guarda.
–    Un coso cosa?
–    Un coso. Un metro e venti di altezza… Sguardo sognante e cartella sulle spalle…
–    Dio che palle!
Quando ti sei girato avevi la barba ancora incastrata sotto il mento, la sigaretta in bocca e un VAFFANCULO al neon lampeggiante sulla fronte. Il bambino ti ha guardato a lungo, col sorriso che gli moriva lentamente sulle labbra.
–    Che vuoi?
–    Sei Babbo Natale tu?
–    No, la Befana! Che vuoi?
–    Come la Befana?
–    Babbo Natale, sono Babbo Natale, ok? CHE VUOI?
–    Ma… e la tua barba?
–    L’ho abbassata. Sto fumando, CAZZO! Non lo vedi?
Non ho mai visto un bambino scappare con tanta velocità fra le braccia della madre. Devo riconoscere però che non ha versato nemmeno una lacrima. È  sempre così che succede, quando si diventa grandi all’improvviso. Tu lo sapevi che stavi uccidendo Babbo Natale davanti ai suoi occhi. Lo sapevi e non hai fatto nulla. E io ti ho dato una mano. Cattivi? Forse. Incattiviti, sicuramente. Faceva troppo freddo quella mattina, per essere teneri. Ed eravamo troppo stanchi per preoccuparci di qualcosa che non fosse arrivare vivi alla fine della giornata. Così lo abbiamo visto correre via e ce ne siamo fatti una ragione, anche piuttosto in fretta. Abbiamo spento le cicche sotto la suola e ci siamo salutati con un cenno. Mentre ti allontanavi  ho urlato forte che chi mangia patate non muore mai e ti ho visto di schiena, sicuro, con le mani ben affondate nei pantaloni rossi del tuo costume da poche lire. “Buon Natale” ho pensato, scaricando un altro sacco di patate sul bancone.

Vaìa

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