Mentre lo osservavo non riuscivo a decidermi. Era un matto, con quegli occhi spersi nel nulla, lucidi e appannati insieme? O solo uno dei tanti, stanchi di lottare, fermatisi un attimo per rifiatare e subito sorpresi dal buio della notte? Come quei soldati che si sedevano sul bordo della strada, per riposare, e che si lasciavano morire, uccisi dal gelo e dalla stanchezza, troppo esausti anche solo per fare lo sforzo di respirare. “Depresso”, direbbe qualcuno. Che poi la depressione, anche lei, cos’è in fondo se non la semplice voglia di alzare le braccia, di non muoversi più, di chiamarsi fuori dalla follia di una guerra, o del mondo?
Più lo studiavo, più i miei occhi si soffermavano sul suo mento mal rasato, sulle basette fuori moda, sul maglione dai gomiti sdruciti e consumati dal troppo stare a braccia conserte a fare l’omino per bene, educato, rispettoso. Particolari disturbanti nella loro singolarità e ancora più fuori luogo se presi tutti insieme. Piccole note di disordine, testimonianze di una vita che aveva deciso di avere più passato che futuro. Incidenti di percorso fossilizzati in una condizione di perenne disagio e abbandono.
Avrei voluto sedermi di fianco a lui, mettergli una mano intorno alla vita e appoggiare la mia testa sulla sua spalla, per consolarlo e consolarmi. Ma ho avuto paura di essere risucchiato dallo stesso vortice, da quel insopprimibile desiderio di annullarsi fino all’estremo, di sparire, di essere dimenticato. Così ho distolto lo sguardo e gli ho girato le spalle, cercando di accontentarlo.

London Top Ten
Dieci cose che ho imparato a Londra:
- Se vuoi vivere, quando attraversi la strada nel dubbio guarda pure sopra e sotto di te. Spunterà di certo un taxi.
- Dai 2 gradi in su è ufficialmente estate. Gli uomini girano in maglietta o al massimo con una giacchetta striminzita. Le donne in sandali e canottierina. Gli italiani coi moon boot.
- A 5 gradi è estate piena. I genitori inglesi lasciano che i bambini giochino a piedi nudi nelle fontane dei parchi. Quelli italiani che si slaccino il Moncler.
- Le donne sono belle (spesso) e scosciatissime (quasi sempre). Solo che a volte hanno la faccia di Jessica Fletcher.
- Se una cosa è commestibile è fritta, carbonizzata o annegata in strane salsine. E se cercate bene dal piatto salterà sempre fuori almeno un cetriolo.
- In generale il cibo “inglese” non esiste. E se esiste è solo per intestini di ferro (o d’acciaio, meglio).
- In particolare il cibo “etnico” è ovunque. A proposito, vi ho già parlato degli intestini di ferro (o d’acciaio, meglio)?
- I cestini per l’immondizia sono rarissimi. Se vi azzardate a scartare un chewing-gum siate pronti a tenere la carta in tasca fino all’albergo. O a ingoiarla un pezzetto alla volta, insieme a fazzoletti usati e biglietti della metro.
- I divi del cinema girano indisturbati per i pub e hanno la panza. Colpa della birra in entrambi i casi, probabilmente.
- Non esiste il concetto di “erbaccia”. Dai 15 cm quadrati in su ogni zolla verde è rasata alla perfezione. E sopra ci sono almeno tre persone che fanno un pic-nic.
Vaìa

Caccia sì! Caccia no!
Il 3 giugno prossimo in Piemonte si vota un referendum in materia di caccia. Non per l’abolizione tout court della caccia, ma per la riduzione di alcuni dei privilegi di cui godono i cacciatori e per tutelare maggiormente la fauna con norme più restrittive. Come ad esempio la limitazione di specie cacciabili. Già da ora, però, sui social network e sui muri delle città sono iniziati ad apparire i primi appelli (ovviamente “contro la caccia” in senso lato, giusto per partire col piede sbagliato). Un fenomeno che immagino andrà aumentando esponenzialmente da qui a giugno, con inviti sempre più urlati e isterici. Tutto questo mi infastidisce e mi spinge, in modo del tutto incosciente lo so, a dire la mia.
Premessa. Sono favorevole a una limitazione e a una regolamentazione della caccia. Per cui il 3 giugno, preso atto del testo referendario, molto probabilmente andrò a votare. Sperando che così faccia il 50% più uno dei votanti, come per tutti i referendum. Detto questo, però, non posso che spezzare una lancia a favore dei cacciatori (quelli che rispettano le regole) e lanciare io un appello: occhio a non esagerare con la facile retorica animalista.
A parole, infatti, tutti sono contro la caccia, tranne forse figli e parenti dei cacciatori. Pratica inumane – si sente dire – condotta da cripto-assassini desiderosi di sfogare la loro violenza su poveri animali indifesi (famosa la vignetta di Vauro: “Se proprio vi piace sparare agli uccelli… sparate al vostro!”). Peccato però che ricerche recenti stimino in non più di 5 milioni gli italiani che hanno scelto di diventare vegetariani. 5 milioni su quasi 60 milioni di abitanti (anche togliendo i bambini il discorso non cambia).
Come dire: sono contro la caccia, ma non disdegno un bel filetto al pepe verde, nel caso. “Che c’entra?”, dirà scandalizzato l’animalista di Facebook. C’entra eccome. Perché io non vedo differenze fra prendere una doppietta e – con tutte le regole ferree del caso – sparare a un fagiano o a un cinghiale per poi mangiarselo e andare al supermercato a comprarsi una civilissima confezione di pollo allevato in batteria. Certo, sparare a un animale indifeso può sembrare un comportamento osceno. Ma almeno quell’animale, fino a quel momento, ha vissuto libero. Non accecato dalle lampade, ingozzato 24 ore al giorno per crescere prima martoriato in spazi angusti.
Coerenza, quindi. Siete contro la caccia? Siete DAVVERO contro la caccia? Allora dovreste essere vegetariani, poche storie. Così come se siete contrari al genocidio degli ermellini non dovete comprarvi una pelliccia e così via… Altrimenti rischiate di essere animalisti della domenica, oltre che ipocriti (che per me è pure peggio). Pronti a trattare da mostro chi fa il lavoro sporco in prima persona e ad accettare di buon grado un meccanismo perverso che eleva a sistema la trasformazione degli animali in prodotti industriali, da assemblare e uccidere al solo scopo di massimizzare i profitti offrendo carne – scadente – al maggior numero di persone. Il che, fra parentesi, è anche un attentato alla salute pubblica (ma anche questo è un altro discorso).
Io per esempio, da buon fiorentino, il migliore fagiano che abbia mai mangiato è stato quello da cui ho dovuto sputare i pallini, cacciato da mio zio sulle colline della Val di Sieve. E vi giuro che ancora oggi mi commuovo al ricordo e mi sento molto più a disagio quando vado a comprare il pollo o qualsiasi altro animale oggetto di allevamento e macellazione industriale. Tanto che sono anni ormai che, non volendo diventare del tutto vegetariano, compro e mangio meno carne, ma solo di ottima qualità. Spendo di più ok, ma ne mangio meno e vivo più sano (che detto da me è pure buffo), contribuendo a inquinare di meno questo povero mondo (se ancora non sapete il perché date una lettura a wikipedia, alla voce “allevamento intensivo”).
Senza contare che come mi hanno fatto notare alcuni amici cacciatori, la situazione è complessa, molto complessa. Per esempio, giusto per farne uno, la caccia a volte è anche una garanzia per la biodiversità, visto che permette di intervenire su specie che si stanno riproducendo troppo velocemente in un determinato habitat, danneggiando le altre specie.
Tutt’altra storia è quella della caccia sportiva, quella sì una pratica da assassini frustrati. Non accusatemi di volerli difendere, perché non è cosa. Non si può giustificare chi va in cerca di trofei viventi, come l’idiotissimo re di Spagna da poco fotografato davanti alla carcassa dell’elefante che aveva appena ammazzato. Potete inveire contro di loro anche mentre sgranocchiate costolette alla brace, tranquilli. Ma se l’oggetto dei vostri strali sono quelli che dal cinghiale traggono nutrimento per mesi (giuro che si fa), allora lasciate perdere. A meno che non siate davvero pronti a cibarvi solo di rucola ed hamburger di soia.
Il 3 giugno, insomma, votate quello che volete (nel dubbio, meglio un Sì). Ma nel frattempo, non parlate solo per slogan. Sono facili da urlare, ma di solito difficili da giustificare. Io poi non ci riesco proprio, che ci posso fare?
Vaìa

Fogli
Fogli. Chili di fogli. Tonnellate di fogli. Bianchi, scritti fitti, tracciati di appunti. Intestati, sottolineati, evidenziati. Fogli che spuntano dai cassetti, che ricordano vite passate, che sanno di buono, che fanno salire l’acido alla bocca dello stomaco. Fogli spiegazzati, ordinati, raccolti in dox, in buste di plastica, in cartelline di carta colorata.
Fogli che discolpano, conservati per sicurezza postuma. Fogli che accusano, occultati per salvezze improbabili. Fogli scoloriti, macchiati da tazze di caffè, ingialliti dal sole, ingrigiti dalla polvere. Fogli che scrocchiano fra le dita, che scivolano via, che perdono corpuscoli di sporco. Fogli che puzzano di burocrazia lontano un miglio, che ti hanno salvato la vita, che ti hanno messo spalle al muro.
Fogli che prendo con le mani, uno per uno o tutti insieme. Che sfoglio per essere sicuro di quel che faccio o che afferro senza nemmeno guardare. Fogli che lancio nel raccoglitore della carta straccia per garantire loro in altre forme quell’eternità che come documenti qualsiasi non avrebbero mai vissuto. Fogli che riporto alla luce e che butto via senza alcun senso di colpa. Che vedo inghiottiti da quella bocca gialla e famelica, quasi compiaciuta.
Fogli che affogano nell’oblio e che mi fanno sentire più leggero, mentre cancello 12 anni di vita in pochi minuti. Facendo spazio nei cassetti e sulla scrivania, liberando spazio vitale per altri fogli, che ancora non conosco ma di cui posso immaginare la forma e l’odore. Perché, in fondo, anche questa è la vita che va avanti. Che cambia e si rinnova, per iniziare una nuova fase. Risalendo dall’abisso verso la superficie. Una boccata ancora, prima di tornare sotto.
Vaìa

In mare aperto
Venerdì 27 gennaio, ore 13. Si torna in mare aperto.
Ci ho messo mesi a costruire la mia piccola zattera. Legnetto su legnetto. Corda su corda. Giorni e giorni a legare, serrare, rinforzare. Mesi a resistere, a far passare il tempo, a staccare la mente. Notti passate a guardare le stelle, immaginando di trovarmi altrove, in una vita normale.
Adesso che aspetto il vento giusto per salpare, non posso fare a meno di ripensare che sto per mettermi in acqua senza punti di riferimento precisi. So esattamente dove voglio andare, ma ho solo un’idea confusa di come riuscire a farlo. Sensazioni. Intuizioni, nulla di più.
Non ho mappe, né bussole. Né compagni a cui chiedere istruzioni, perché ognuno ha lasciato questa roccia nel nulla a modo suo. Ognuno ha tracciato la propria strada alla cieca e non si è attardato a dare istruzioni agli altri che ancora dovevano partire.
Ma soprattutto, se osservo il cielo e cerco di capire che tempo farà, mi assale sempre una domanda. Fredda come l’acqua in cui sto per tuffarmi, che non riesco a toccare senza sentirmi indolenzire le mani. Una domanda alla quale non sono in grado di dare risposta.
Sarò ancora capace di navigare?
Vaìa

Io sto coi tassisti
Volete che lo dica? Ok, lo dico: “Io sto con i tassisti”.
Perché? Io sto con i tassisti perché è gente che ha pagato, e tanto, per avere un lavoro. Una licenza costa decine, se non centinaia di migliaia di euro. Soldi che quelle persone hanno speso di tasca loro, indebitandosi nella maggior parte dei casi. Vi pare logico che dall’oggi al domani si possa pensare di azzerare questi investimenti senza colpo ferire? Con quale diritto?
E’ molto bello pensare a come favorire la concorrenza e aumentare i diritti dei cittadini di avere servizi migliori e meno costosi. Sono il primo a volerlo. Meno bello, quando non proprio infame, pensare che tutto questo possa essere fatto sulla pelle di altri cittadini che, per esempio, perderebbero di colpo quella che per loro è pensione e liquidazione allo stesso tempo, ovvero la licenza. E’ come se a un’impresa che ha investito in macchinari si dicesse di punto in bianco: “spiacente, ma quei macchinari non potete più usarli, altrimenti la concorrenza ne risente”.
Qua non è questione di tutelare un gruppetto ristretto di persone, ma di garantire i diritti di tutti. Perché fino a prova contraria anche chi ha un taxi è cittadino italiano. Volete azzerare le licenze? Ok, ma serve un indennizzo serio, una discussione seria, profonda, condivisa. Altrimenti non è stato di diritto, ma semplice prevaricazione. E i diretti interessati fanno bene a incazzarsi. Anche perché vedono lasciati tranquilli tanti altri monopoli più grandi e scandalosi. Come le ferrovie e le banche, per dirne un paio. Gente che il lavoro di sicuro non se l’è comprato a prezzo di mercato.
C’è un gran brutto tempo in Italia. Un tempo fatto di semplificazioni e facili odi da social network. E se ogni riflessione si riduce sempre alla solita contrapposizione fra “privilegiati” e cittadini normali, con tutto il qualunquismo becero che questo comporta, prepariamoci pure a tempi magrissimi.
Recuperiamo la lucidità e la capacità di analisi. Ci sono i privilegi e ci sono i diritti. Iniziamo a colpire i primi e tuteliamo i secondi, siano anche quelli di chi guida un taxi, di chi fa il giornalista anche senza essere un professionista o di chi salta qualche scontrino perché strangolato dagli studi di settore. Gli strumenti per capire la differenza ci sono, basti pensare a Cortina. Iniziamo a usarli una buona volta.
Vaìa

Cherubini gratta e vinci
Mi han detto qualche giorno fa: “Sai Tizio Caio? Ha vinto non mi ricordo più se 500 o 5.000 euro al gratta e vinci”. Ora io, che considero Tizio Caio con la stessa simpatia e cordialità con cui potrei dover affrontare un campo minato, io qua un po’ mi incazzo. Non tanto per la mia considerazione del personaggio, quanto per il fatto che essendo lui già ben dotato di suo di liquidità mi trovo di fronte al classico effetto “piove sul bagnato” che ho sempre detestato, sia in positivo che in negativo.
Poi mi calmo e rifletto. In fondo una notizia del genere è un conforto. Sì, perché ad esempio ti spiega tante cose, come ad esempio il successo sfrenato che da duemila anni a questa parte ha la religione cattolica. La vita è una merda? Piove sul bagnato? Chi ha sfiga avrà sfiga, chi ha soldi avrà soldi? Chi ha salute se la tiene e chi non ce l’ha la perde? Non temete. Un’approfondita analisi di marketing ha dimostrato che nell’aldilà chi ha avuto meno otterrà addirittura il regno dei cieli e potrà suonare l’ukulele per l’eternità con una band di cherubini alati e permanentati.
A questo punto però si pone un problema. A ben vedere sempre di marketing. Perché ok per l’eternità, il paradiso e i cherubini con l’ukulele. Bello, per carità. Molto rilassante. Ma se altri in cambio ti promettono novanta vergini pronte a sollazzare “for ever and ever” ogni tua più sfrenata fantasia erotica, spiegatemi perché diavolo non debba dargli retta. Altro che nuvolette bianche e cori angelici.
Per cui lo vedi a cosa mi hai costretto, maledetto Tizio Caio, con la tua evitabilissima vincita? Hai indotto un ateo scellerato come me a prendere in seria considerazione l’ipotesi di una conversione forzata e mirata a puri motivi di sesso facile, gratis e sicuro. Ti pare? Lascia almeno che mi consoli pensando alla tua faccia, quando mi vedrai arrivare col passo sicuro, il giubbotto un po’ troppo imbottito per la stagione e un sorriso serafico sulla bocca. Ti prometto, non sentirai nulla. Guarda, ho già l’innesco pronto in mano. Sorridi, dai. Non ti senti fortunato?
Vaìa

Nicola Stragaglia, detto Lino, parrucchiere di professione
Ogni uomo ha un grido di battaglia. Nicola Stragaglia, detto Lino, parrucchiere di professione, non faceva eccezione. Te lo lanciava alla fine del lavoro, mentre ti svolazzava intorno con il suo metro e sessanta di statura, agitando uno specchio col retro di plastica bianca e mostrandoti la perfetta sfumatura della tua nuca. “Ec-co!” Il si-gnò-re è ser-vì-tooo!”, ti sillabava deciso con quel suo strano accento da pugliese trapiantato, pieno di vocali aperte come il mare delle Tremiti, prima di nascondere il vetro dietro la schiena con un gesto da prestigiatore.
Nicola ha sempre avuto un’età indefinita. Chi avesse voluto lanciarsi in una stima anagrafica non avrebbe trovato elementi sicuri su cui basarsi. I pochi capelli (un vero affronto per chi faceva il suo mestiere) erano bianchi, ma conservavano decise tracce del loro nero originario. Erano pettinati con uno sfrontato riporto e grazie a una formula matematica nota solo a lui coprivano in modo perfetto ed equilibrato tutta l’ampiezza del suo cranio.