Incontro


Mentre lo osservavo non riuscivo a decidermi. Era un matto, con quegli occhi spersi nel nulla, lucidi e appannati insieme? O solo uno dei tanti, stanchi di lottare, fermatisi un attimo per rifiatare e subito sorpresi dal buio della notte? Come quei soldati che si sedevano sul bordo della strada, per riposare, e che si lasciavano morire, uccisi dal gelo e dalla stanchezza, troppo esausti anche solo per fare lo sforzo di respirare. “Depresso”, direbbe qualcuno. Che poi la depressione, anche lei, cos’è in fondo se non la semplice voglia di alzare le braccia, di non muoversi più, di chiamarsi fuori dalla follia di una guerra, o del mondo?
Più lo studiavo, più i miei occhi si soffermavano sul suo mento mal rasato, sulle basette fuori moda, sul maglione dai gomiti sdruciti e consumati dal troppo stare a braccia conserte a fare l’omino per bene, educato, rispettoso. Particolari disturbanti nella loro singolarità e ancora più fuori luogo se presi tutti insieme. Piccole note di disordine, testimonianze di una vita che aveva deciso di avere più passato che futuro. Incidenti di percorso fossilizzati in una condizione di perenne disagio e abbandono.
Avrei voluto sedermi di fianco a lui, mettergli una mano intorno alla vita e appoggiare la mia testa sulla sua spalla, per consolarlo e consolarmi. Ma ho avuto paura di essere risucchiato dallo stesso vortice, da quel insopprimibile desiderio di annullarsi fino all’estremo, di sparire, di essere dimenticato. Così ho distolto lo sguardo e gli ho girato le spalle, cercando di accontentarlo.

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