Il gabbiano (ipotetico)


Gli era accaduto mille altre volte di seguire senza opporre resistenza il filo tenue di un ricordo, fino a perdere completamente la cognizione del tempo e dello spazio. Completamente imbambolato. Adesso era lì in bagno e se non fosse stato per il fatto di vedersi all’improvviso allo specchio con la schiuma da barba in viso, la lametta in mano e l’acqua calda che scrosciava nel lavandino di sicuro ci avrebbe messo un po’ per ritornare in sé e ricordarsi cosa stesse facendo.

Era uno dei motivi per cui seminava sempre tutto per casa, le chiavi, gli occhiali, il telefonino. Pensava ad altro e si muoveva come un automa, lasciando le cose in giro. Bastava un odore, un rumore, una sensazione di gioia o di fastidio per far iniziare a viaggiare la sua mente. Una volta stava rimettendo a posto i documenti della sua vita burocratica: fatture, bollette, ricevute. Il profumo dolciastro di una busta di plastica lo fece letteralmente volare via per ritrovarsi bambino.

Avrà avuto una decina d’anni ed era rimasto alzato fino a tardi ad aspettare che suo padre tornasse da lavoro. Perché era il primo giovedì dall’inizio della scuola, il giorno in cui avrebbe ricevuto il pacco dei suoi sogni. Un voluminoso involucro di carta gialla che da sempre conteneva tutta l’attrezzatura per andare a scuola, dalla cartella ai quaderni, dalle penne alle matite colorate. Un tesoro. Un dono che lo faceva sentire grande, importante, che lui scartava insieme al padre fra urla di gioia e prove di scrittura improvvisate su fogli di recupero. Fino alla meraviglia finale, la cartella. Non uno di quelli zaini colorati e pieni di scritte con l’uni posca che avrebbe scoperto solo al liceo e nemmeno uno di quegli obbrobri pubblicitari zeppi di gormiti o mostriciattoli che ostentavano tutti uguali i bambini di oggi. No. Quella era una cartella vera, in cuoio, con la maniglia sopra e le cinghie per le spalle dietro. E con le classiche due tasche con fibbie d’ottone sul davanti. Quell’anno il babbo si era addirittura permesso una botta di colore, una fantasia scozzese sul rosso che lui aveva ammirato a bocca aperta, come la realizzazione di un desiderio proibito.

Quando tornò in sé ci mise almeno un’ora a rimettere nel giusto ordine i vari documenti, stupendosi di come avesse potuto mescolare tutto con quella incredibile noncuranza. Non era da lui, almeno da lucido. Ma quella mattina era successo qualcosa di diverso. Di solito questi viaggi, chiamiamoli così, duravano poco, una decina di minuti al massimo. E una volta terminati riusciva a tornare alla sua vita normale abbastanza in fretta. Ma quando buttò un occhio all’orologio del bagno si stupì nel veder che era rimasto in sospeso almeno quaranta minuti. E ancora non riusciva a togliersi dalla mente tutti i ricordi che lo avevano invaso. E una sensazione infinita di pena che lo faceva respirare pesante.

Si chinò nel lavandino e spostò il miscelatore sul freddo, per sciacquarsi la faccia e il collo. Poi tirò su la testa e si osservò attentamente allo specchio. I suoi capelli, rasati quasi a zero, ormai avevano deciso di abbandonarlo in massa, resistendo eroicamente sulle tempie e dietro, anche se questa dimostrazione di lealtà non lo consolava più di tanto. I suoi occhi erano stanchi, segnati. E la sua barba sempre più bianca, sul mento. Si ricordò di quando una mattina – ecco, di nuovo! – tre o quattro anni prima, cercò di pulirsi quello che credeva sapone, prima di accorgersi stupito che era un nuovo ciuffetto di peli candidi, spuntato dal giorno alla notte proprio sotto la bocca.

La sua mente lo riportò indietro. Rivide la foto della sua prima patente, con un barbone che nemmeno i brigatisti degli anni Settanta potevano sfoggiare con altrettanto orgoglio, tanto era bello, folto e – soprattutto – di un colore solo. Un bel marrone con riflessi rossi, dalla base del collo fino quasi agli occhi. E poi ancora più indietro, a quando la barba non la portava ancora, ma in compenso aveva capelli lunghi e pieni di riccioli, che si pettinava col gel, ma senza riuscire a tenerli a bada tanto erano ribelli. Di nuovo, come poco prima, si ricordò di quei ragazzi che tornavano a casa su uno scassato autobus giallo della linea 2. Con una tanica di benzina vuota sotto braccio, perché la macchina si era fermata e c’era bisogno di un’azione di emergenza.

Quei ragazzi ancora così inconsapevoli, liberi, leggeri. Quanta tenerezza che provava per loro. Per quella loro capacità di essere ancora in grado di volare e di trasformare le vie piccole e sporche in cui si muovevano in viali luminosi e pieni di verde. Le normali vicende della loro vita in avventure in cui lanciarsi a testa bassa. Alla conquista di una ragazza, alla conquista dell’amore o del proprio posto nel mondo. Un posto ancora indefinito, ma di sicuro pronto a regalare qualcosa di meglio di quello che avevano conosciuto fino a quel momento. E non importavano i pochi soldi in tasca o la merda che poteva aspettarli a casa. Perché quelli non erano i loro problemi. Da tutto quello schifo loro potevano scappare via in ogni momento, bastava chiudersi la porta alle spalle. Era difficile, certo, ma non impossibile. E una volta fatto erano capaci di librarsi sopra le nuvole piene di pioggia e trovare il sole. Senza nemmeno più vederla quella merda. Senza più nemmeno sentirne l’odore. Adesso quei ragazzi semplicemente non esistevano più. Si erano persi, chissà quando e chissà dove.

Mentre osservava la sua faccia sgocciolante allo specchio gli venne in mente una canzone. Un pezzo rigorosamente triste e lamentoso. Roba da essere preso per il culo per mesi alla sua età. Era il segnale che bisognava darsi una mossa, ma subito. Afferrò l’asciugamano e se lo passò energicamente sul viso, spazzando via le ultime tracce di schiuma. E al diavolo la barba. Se la sarebbe tenuta lunga, bianco compreso. Che poi fa tanto filosofo anche se sei una testa di minchia. Qua ci voleva una bella attività spegni cervello, qualcosa di talmente basso profilo da resettare la mente e riportarla alle funzioni basilari. Roba tipo fame, sete, sonno, cacca. Ma assolutamente nulla che riguardasse il pensiero.

Si rimise la maglietta e si diresse con decisione in salotto. Accese la Ps3 e lanciò senza indecisioni il suo gioco di calcio preferito. Giusto il tempo di trovare qualche pischello in giro per il mondo pronto a riempirlo di mazzate e già si era dimenticato tutto. Era di nuovo lui, il se stesso del 2011. Quarantenne alle prese con una vita un po’ più difficile della media. Bianco e stempiato. Ma con ancora la voglia di esserci e di dire la sua. Anche se i piedi con gli anni si erano fatti pesanti e di volare non si parlava più (un gabbiano ipotetico, avrebbe detto il signor G.). Bisogna accontentarsi di saltare il più in alto possibile e cercare di scorgere un po’ di sole e di futuro, prima di ricrollare a terra. È difficile, certo, ma non impossibile. A volta basta una battuta fatta come si deve, al momento giusto. Dura poco, ma è qualcosa che ti rimette in pace col mondo e ti fa sentire leggero. Capace di lasciarsi finalmente alle spalle i fantasmi e guardare avanti, senza paura.

Vaìa

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5 thoughts on “Il gabbiano (ipotetico)

  1. Ho già scritto le mie sensazioni da qualche parte, non so dove sono sparite, sai che non sono per niente pratica di messaggi, ti ripeto solo quello che ti ho già detto: sei bravissimo ti voglio bene tanto e sono orgogliosa di te. Mamma

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