Scarabei...

La vita a rate

La vita a rate, in fondo, non è per niente male. Evita la noia, preserva dalla pigrizia (anche una persona estremamente pigra come me), stimola a guardarsi intorno e a cercare il meglio, analizzando la propria vita e sentendosi sempre e comunque pronti per il prossimo cambiamento.

Perché la vita a contratto ha questo di bello: ti spinge a gustare le cose, a metterti alla prova e a non cedere più alle inutili malinconie, ai facili rimpianti, ai finti problemi. Prendiamo l’ansia, per esempio. Ho imparato a riservarla solo alle circostanze che se la meritano davvero. Negli ultimi mesi sul lavoro l’ho provata seriamente una volta sola, poco tempo fa (segno per altro che sono guarito davvero). Mentre prima, nella via vita col posto fisso, era una compagna più assidua, tenuta a bada dall’esperienza – certo – ma più facile a manifestarsi.

Oggi mi capita di guardare l’affannarsi – spesso inutile – di molte persone con la stessa curiosità con cui un entomologo osserverebbe uno scarabeo spingere con le zampe la sua pallina di sterco, divertito da quello sforzo sovrumano e apparentemente senza senso. Anche ora che i contratti vengono rinnovati con rassicurante ripetitività, so che la mia vita non sarà mai più quella di un tempo. Mi fa sentire strano, ma in fondo, a differenza di un tempo, mi fa sentire anche più vero e completo. Più forte. Più consapevole. E decisamente più distaccato.

Prendiamo il caso che si parli di cassa integrazione o di perdita del lavoro. Mi preoccupo, certo, ma sempre con la rilassatezza di chi sa che c’è sempre modo per rimediare o inventarsi il futuro, quando un futuro c’è. E’ un bel vantaggio competitivo, niente da dire. Anche se a ben vedere al momento non sembra ancora così apprezzato dal mercato del lavoro (io però non snobberei uno che non si agita mai, qualunque incarico gli diano).

Non è una brutta sensazione. Non che ci sia niente di cui ringraziare la sorte. Ma sicuramente c’è molto da imparare e tutto il tempo per farlo, comodamente seduti a leggersi un bel libro, mentre ai nostri piedi una fila di scarabei si affanna terribilmente, per uno scopo che, in fondo, spesso sono loro i primi a non comprendere.

Vaìa

appleandroid

Mela o non mela? Come la vedo io…

Ok, lo ammetto. Per me è facile essere sedotto dalla tecnologia e voler provare cose nuove. D’altro canto nel 1994 comprai un Mac (Performa) quando non li usava nessuno e avevano ancora la mela a colori. Così quando mi è punta vaghezza di provare un Android ho ceduto, altrimenti me ne sarebbe rimasta la voglia per sempre. Grazie ai miei giri di forum e conoscenze, ho dato via il mio 4s per prendere alla pari un Galaxy S3. Dopo un paio di mesi eccomi a tirare le somme. Lascio a voi indovinare come è andata a finire.

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Piccole considerazioni sul mototurismo

Tu, ciclista amatoriale a capo di una squadra di esaltati griffati e pedalanti all’unisono verso improbabili sogni di gloria, mettiti in testa che il “trenino” si fa mettendosi uno dietro l’altro e NON uno di fianco all’altro. E quando lo hai capito, per cortesia, fai girare la voce…

Tu, ciclista fuori forma della domenica, che sali sulla bici dopo 20 anni e pensi di poter scalare il Mercantour, se devi ondeggiare come un ubriaco salendo per tornanti impossibili, almeno cerca di non perdere il controllo proprio mentre sto arrivando io e in direzione opposta un camper.

Tu, guidatore di un amabile camper, io capisco che la tu filosofia di vita ti imponga di piazzarti in mezzo alla strada a 20 all’ora in qualunque condizione (salita, discesa, pioggia, sole, autostrada). Ma non potresti almeno avere il buon gusto di farlo di notte? O di caracollare quanto prima giù da un precipizio?

Tu, centauro con tuta in pelle e casco replica di “Dovizioso/Dohan/Lorenzo”, è inutile che sorpassi sui tornanti e sfrecci a 120 sui rettilinei di 10 metri prima di una curva cieca. Valentino Rossi non ti vedrà e non si sentirà sfidato dal tuo testosterone. E nessuno ti prenderà il tempo, al massimo il calco dei denti.

Tu, avventuroso pilota di un Bmw Gs 1200, puoi anche montare il set trophy con 12 faretti alogeni, paramotore in acciaio, set di valigie antiurto da viaggio e navigatore satellitare. Resti comunque a 2 km da Bardonecchia, non a Marrakesh. Le possibilità di guadare fiumi o perdersi nella giungla sono ridottissime.

Tu, automobilista frustrato, se vedi che ti sto superando e fino a quel momento hai guidato come se stessi andando al tuo funerale e non avessi nessuna voglia di arrivarci, non lasciarti prendere da sussulti di dignità. Non sei meno uomo se ti fai passare da una moto, non è necessario fargliela pagare sbandando.

Ma soprattutto…

Tu, donna che guidi col cellulare incastrato fra collo e mento e affronti la strada truccandoti e fumando, e tu, anziano che attendi l’ultimo secondo prima di pregare il tuo dio, chiudere gli occhi e lanciarti in mezzo alla strada senza guardare… restate esattamente come siete. Se riesco a sopravvivervi le possibilità di incrociarvi di nuovo, grazie al cielo e alla selezione naturale, sono molto basse. E questo mi basta.

Vaìa

La busta

Romanzo brevissimo in 300 caratteri.

Giorgio si sedette al tavolo di cucina, una birra gelata già aperta davanti a sé. Sorrise al muro osservando di sbieco la busta gialla che aveva appena aperto, con il logo nero e un po’ sbavato. Chiuse gli occhi e con la mano cercò al buio la bottiglia. “Chissà come sarebbe non riaprirli più”, pensò.

Vaìa

tempo

Un anno di più

Un anno fa a quest’ora, sono circa le 8 di mattina, l’equipe del Centro trapianti di fegato delle Molinette di Torino probabilmente aveva già praticato la prima incisione e stava per mettersi a ravanare nel mio addome. Obiettivo: quella simpatica ghiandolina di circa 13 centimetri a cui la provvidenza ha dato l’incarico di produrre insulina ed enzimi digestivi.

L’operazione che ho fatto, ho scoperto solo in seguito, era una delle più difficili della chirurgia addominale. Tralascio i particolari, per riservatezza e per pudore. Ma a quanto pare c’erano anche possibilità, in fondo non così remote, di lasciarci le penne o di andare incontro a serie complicazioni, nell’immediato, nel breve e nel medio lungo periodo. Questo per limitarsi al puro e semplice intervento.

Probabilmente 10 o 15 anni fa, adesso, non sarei più qua. Così come non sarei qua se non fossero intervenuti subito. Si parlerebbe di me come di qualcuno che in molti hanno conosciuto, che qualcuno ha apprezzato per svariati motivi, che qualcuno ha perfino amato e che – spero – ha lasciato un buon ricordo in quasi tutti quelli che c’hanno avuto a che fare. “Ah, Gomboli sì, povero, me lo ricordo…” e via con l’aneddoto personale.

Invece un anno fa a quest’ora, sono circa le 8 e 10 di mattina, le mani nel mio addome ce le hanno messe chirurghi capaci e preparati, addestrati per ogni situazione di emergenza e non a caso operativi in uno dei centri di eccellenza a livello nazionale. E ce le ha messe, nel momento più delicato, Mauro Salizzoni, uno che davvero ha bisogno di poche presentazioni.

Così mi sono salvato.

È stata dura, me lo avevano detto chiaramente. Ma se adesso penso, progetto, lavoro, gioco con i miei figli, scherzo, corro, mi incazzo, amo e sono tornato a vivere (quasi) normalmente lo devo a lui e a loro. Così come lo devo a chi mi ha preso in cura all’inizio e mi ha indirizzato verso i migliori specialisti, senza perdere tempo e lasciando da parte l’orgoglio di dire “il paziente è mio e ci penso io”. Così come lo devo a chi mi ha seguito dopo, consigliandomi e curandomi con capacità e sensibilità. Sempre col sorriso.

Un anno dopo, all’incirca alla stessa ora, non posso fare a meno di pensare a tutte queste persone, medici e infermieri, e a ringraziarle ancora una volta dal profondo del cuore. Portando la mia piccola testimonianza a supporto di chi ogni giorno dimostra coi fatti che la sanità non è soltanto un gioco di numeri, di costi da tagliare, di inefficienze da eliminare, di baronati da abbattere. Per carità, sarà anche questo. Ma è prima di tutto ricerca, passione, lavoro duro, coraggio e capacità di tenersi sempre a passo coi tempi e con le tecnologie mediche, dando un futuro a chi un futuro rischia davvero di non averlo più.

E se tutto questo costa moltissimo o è perfino in perdita, perdonatemi, ma non mi interessa minimamente. Ci sono cose che devono essere tutelate indipendentemente da tutto. La sanità pubblica e funzionante è forse la più grande conquista di questi tempi sventurati. Ricordiamocelo, ogni tanto.

Vaìa

running

Kill yourself to never, ever stop

Una volta guardavo la gente correre e mi sembravano tutti buffi. Mezzi matti che non avevano di meglio da fare che mettersi un paio di scarpette e saltellare nei parchi, faticando come degli ossessi. Magri e allampanati, ciccioni sudati o atleti scolpiti, consapevoli della propria forza. Un curioso spettacolo umano, che mi interessava giusto il tempo di qualche boccata alla sigaretta, seduto su una panchina.

Oggi a chi mi chiede perché corro, dopo dieci anni di fatiche su per parchi, strade e campagne, rispondo con un laconico: “Perché mi piace”. Meglio non lasciarsi troppo andare nel raccontare le proprie emozioni, è la mia regola di vita da sempre.
Ma è ovvio che non è vero. Correre è molto, molto di più. E se divento retorico, pace. Lo sport è retorica. Perché correre è morire e rinascere in una volta sola. È sentire la fatica che ti avvolge ed essere più forte del desiderio di fermarsi. È la precisa consapevolezza di esistere in perfetta armonia, qui e ora, mentre il mondo ti passa intorno in silenzio o con la colonna sonora di qualche canzone che ami e che risenti ossessivamente, chilometro dopo chilometro.

Così è da sempre e sempre resterà. Ogni volta che mi sono dovuto fermare il mio primo pensiero è stato “quando potrò tornare a correre?”. Dopo qualche malanno più o meno grave, dopo l’operazione al ginocchio di qualche anno fa. E soprattutto dopo l’indimenticabile 2011, quando per la prima volta in tutta la mia vita mi sono chiesto se davvero avrei mai potuto tornare a correre di nuovo. Il che, a ben vedere, la dice lunga sulla mia sanità mentale, vista la situazione. Ma correre è una condizione di normalità per me. Se non riesco vuol dire che c’è qualcosa che non va.

Così ogni volta sono tornato. Dopo ogni singolo problema, grande o piccolo, dopo aver atteso che le cartilagini del mio ginocchio destro si riposassero per qualche mese. Perfino adesso, dopo che il mio corpo è stato aperto e ricostruito dal di dentro, prima di essere martellato dalle cure. Ogni volta ho passato giorni su giorni con un unico pensiero: tornare a correre. Tornare a sentirmi libero, vitale, felice, stanco, sudato, dolorante, provato dai crampi e dal mal di schiena. Secco, svuotato. Ma vivo. Sereno e in pace.

Domenica 22 aprile, quando mancavano più o meno due chilometri all’arrivo dei miei primi dieci chilometri di gara da una vita a questa parte, ho finalmente riassaporato quel senso di annullamento totale che solo la corsa mi sa dare. Quella sensazione di superare una barriera, quella della propria paura e dei propri limiti fisici, che divide le vite di chi corre da quelle degli altri normali bipedi umani.

Quella barriera dopo la quale tutto è dolce e il dolore non esiste più, perché senti di avercela fatta ancora una volta, dall’inizio alla fine. Perché senti di essere ancora una macchina pulsante, nonostante tutto. Perché quei dieci chilometri, che una volta percorrevi quasi senza sforzo, sono diventati una maratona intera. Una vita intera. Una vita, la tua, che vuoi ancora onorare con la disciplina, la fatica e la voglia di arrivare fino in fondo. Perché come disse una volta Jesse Owens: “Il miracolo non è essere giunto al traguardo, ma aver avuto il coraggio di partire”.

Vaìa

benza

Un mondo perfetto

Allora arriva ‘sta tipa. Capisci? Una figa, molto figa. Una che se ti capita di incrociarla per strada hai paura anche solo a guardarla… Figurati a rivolgerle la parola! Capisci cosa voglio dire? Una di quelle donne di classe, amico. Cazzo, se era di classe! Tanto di classe che se non ci fossimo trovati in questo merdoso ventunesimo secolo una così se ne sarebbe arrivata su una carrozza dorata piena di piume e trainata da otto cavalli bianchi. Ho reso l’idea? Solo che siamo nel ventunesimo secolo, così lei se n’è arrivata su una Mercedes Slk grigio metallizzata. Nuova di pacca, è ovvio. Continue reading

In trincea

In trincea

In trincea

Tutte le guerra hanno una cosa in comune: se non sei pazzo, non te le cerchi. Semplicemente ti travolgono. E una volta che ti ci trovi dentro o fuggi o combatti. Basta che ti arrivi un giorno a casa la notizia di un attacco imprevisto, di un nemico nascosto che ha scelto proprio te, la tua famiglia, il tuo mondo per darsi da fare. Da lì in poi cambia tutto, non puoi fare finta di nulla. Non è coraggio, non è grandezza d’animo. È istinto di sopravvivenza, puro e semplice. Roba tipo quelle frasi fatte da film americano: “O lui o te, capisci Jack? Così ho preso il mio fucile e ho fatto quello che andava fatto per tornare a casa. Cristo Jack, lo capisci?”.
Lo capisco eccome. L’ho fatto anche io. Sono uscito dalla trincea, ho preso il coltello e me lo sono strappato via di dosso, il nemico. Poi ho lasciato guarire le ferite e mi sono messo a fare il mio dovere, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Col sole e con la pioggia. Col caldo che ti fa sciogliere il volto e con il freddo che ti ghiaccia il sangue e le mani.
L’ho fatto perché andava fatto. Senza credere alla propaganda, ma solo a quello che vedevo, sentivo e volevo. E ho continuato finché qualche burocrate è venuto a dirmi che bastava così e che potevo tornare a casa. Un grazie sentito nelle orecchie e una piccola medaglietta ricordo appuntata sul petto, poco sopra i miei segni nascosti, incisi sulla carne il giorno della battaglia.
“Il segreto?”, mi chiedi. Non ci sono segreti. Ti comporteresti allo stesso modo anche tu, stanne certo. Quando non hai alternative, l’impossibile diventa possibile. Il dolore sopportabile. L’angoscia un’amica pressante ma sincera, con cui convivere. Non è questione di coraggio. È che ci si abitua a tutto.
Se proprio vuoi ti posso dare un consiglio, anche se il ruolo del saggio non mi è mai piaciuto. Vai per la tua strada, lascia stare i numeri, le possibilità, le percentuali. Non fare domande se qualcuno non torna dal fronte. E se ti dicono come devi comportarti, alza le spalle e rimettiti a scrutare l’orizzonte fino alla fine del tuo turno. Orecchie spente e mente concentrata. Tu lo sai che è tutto un caso. Le pallottole piovono e non c’è modo di evitarle. Solo centimetri di troppo, a destra o a sinistra, sopra o sotto. È questa l’unica differenza fra la vita e la morte. Qualche centimetro.
Nelle licenze vivi la tua vita. Non pensare troppo. Non lasciarti andare a facili confidenze. Non permettere che nessuno ti guardi come se fosse l’ultima volta. Lascia che gli altri dicano e facciano. Tu sai cosa dire e fare, non hai bisogno di nulla. Soprattutto non hai bisogno di storie e aneddoti. O di consigli, i miei compresi. Se dovesse mai arrivarti la cartolina azzurra che ti richiama alle armi, aprila a testa alta e fai quello che devi fare, senza vergognarti di avere paura o di sentirti debole. Scappare non serve. Prima o poi ti raggiungerebbero e ti presenterebbero un conto ancora più salato.
Ricordi quella canzone che ci piaceva tanto? Possiamo essere eroi, anche se solo per un giorno. O vivere la nostra vita e le nostre guerre restando noi stessi, anche se pronti a tutto. Che poi, a ben vedere, è la stessa identica cosa.
Ma sai qual è la cosa migliore di tutto questo? Che quando sarai di nuovo a casa, scoprirai di non avere più paura di nulla. Ogni problema ti sembrerà all’improvviso affrontabile e ogni fastidio una sciocchezza. Avrai voglia di risolvere i banali intoppi della vita presto e bene, costi quel che costi. Ciò che ti faceva paura ti farà sorridere e ogni minaccia, ogni prepotenza ti darà solo la voglia di reagire, in modo rapido e chirurgico. Perché la trincea ha questo di bello, ti fa venire voglia di lottare per la pace, non appena la riconquisti.

Vaìa