No, io in piedi su un banco non ci sono mai salito.


No, io in piedi sul banco non ci sono mai salito. Non ho fatto parte della “Setta dei poeti estinti” e non ho mai cercato di baciare la ragazza che mi piaceva, ubriaco, davanti al suo fidanzato giocatore di football americano. Ma ho avuto anche io sedici anni e anche io ho frequentato un museo chiamato scuola, in cui anziane figure prive di una qualsivoglia forma di empatia passavano il loro tempo a umiliare e terrorizzare giovani menti con le armi affilate del greco e del latino. Era il 1989, l’anno in cui caddi vittima dell’esame di riparazione di quinta ginnasio, in quel non-luogo chiamato “Liceo Classico Camillo Benso Conte di Cavour”.

Di quello sventurato periodo ricordo poco. Credo di aver volutamente formattato quella specifica sezione del mio cervello. Restano vaghe tracce. Il silenzio di piombo fuso, mentre il dito dell’Innominabile scorreva lento sui nomi incisi nel registro di classe, per scegliere la preda. Le domande a tradimento alla lavagna: “Seconda persona duale aoristo congiuntivo del verbo λειπο?”. E tu che annaspavi una risposta, mentre da dietro gli occhialini gli occhi vitrei del serpente ti fissavano sibilando: “Ssssei sssssicuro?”. Le risatine di scherno dell’esercito di deboli di fronte, pronti a sentirsi forti calpestando la paura altrui. Una scuola fatta per educare all’obbedienza, all’accettazione, al timore. Per “forgiare le classi dirigenti del domani”, come ci avevano detto pomposamente il primo giorno di scuola.

Ora, non so voi. Ma io questa storia della classe dirigente del domani non l’ho mai bevuta. Venivo da un quartiere dove di classi dirigenti se ne erano formate pochine, oltre che da una famiglia in cui i casini erano già inversamente proporzionali alla quantità di banconote nel portafoglio. Già allora, forse per questo sanguaccio fiorentino, preferivo scherzare su tutto. Imitare il potere, cercare i suoi punti deboli e caratterizzarli in improvvisati spettacoli durante l’intervallo. Mai stato uno in grado di prendersi troppo sul serio. Un predestinato, insomma. Nel senso che in quella scuola, con quella gente, ero predestinato al fallimento. Perché non incasellabile facilmente in quel quadratino di banco che già mi pareva più stretto e opprimente di quanto non fosse in realtà (e vi assicuro, lo era già parecchio).

Sia chiaro, non cerco alibi. Mi bocciarono perché non studiai abbastanza. Presi tre materie a giugno e venni trombato clamorosamente a settembre. Perché passai l’estate perso fra i pensieri erotici che si arrampicavano lungo le gambe della mia docente di greco e le giornate in giro con gli amici. Mi meritai la bocciatura, fine della discussione. Perché non riuscii mai davvero ad appassionarmi a quella scuola senza anima, cattiva, fredda. Senza passione io non andavo da nessuna parte, allora come oggi.

Però ero ostinato, questo sì. E quando a settembre mi ritrovai nuovamente nella stessa classe pronto a dare battaglia per il secondo anno consecutivo, il suo arrivo fu un bagliore di luce in una notte senza luna. Talmente sorprendente da apparire impossibile. Immaginate la scena: la preside entra in classe, accompagnata da un giovanotto che non avrà avuto più di trent’anni (una rarità, già solo per questo). Ci spiega che per non ricordo quale motivo quest’anno avremo un supplente per tutto il ciclo “italiano-greco-latino-etc-etc” e che bla bla bla (aggiungete voi qualche monologo solenne sul valore del rigore, della disciplina e dello studio di stampo Ottocentesco). Mentre lui, il giovanotto, tutto compunto fa la faccia di chi concorda con la severità del momento. Ma in un modo che suonava “strano”. Come se ci stesse dicendo: “ragazzi, su facciamola finire che poi si fa a modo nostro”.

Era solo una sensazione, ma avevo ragione. Il clima, ci mettemmo poco a capirlo, era completamente cambiato. Mi sembrava che nella classe avessero aperto le finestre per far entrare aria fresca. La nebbia che mi ottenebrava il cervello era volata via. La mattina andavo in classe con piacere e studiare non era più solo un obbligo. Ero talmente provato dall’anno prima, che a volte non capivo nemmeno gli scherzi. Come quando in un compito di greco a sorpresa, ci venne chiesto di declinare verbi inventati, dai significati palesemente assurdi (ricordo un “paraflùomai”, spacciato come l’equivalente dell’italiano “scongelare”, in onore dell’antigelo per radiatori che tanto di moda andava nelle pubblicità di quegli anni). Giuro, mi ci misi di impegno. Anche se la mia mente, ridendo, continuava a suggerirmi che non era possibile.

Per me fu un anno grandioso. Si studiava, perché si studiava. Ma si rideva anche, e tanto. Si facevano battute, si scherzava. Si veniva trattati con rispetto. Non da pari, questo no. Non sarebbe stato corretto né giusto. Ma con rispetto. Si sentiva che c’era un altro modo per vivere la scuola, che non passava necessariamente attraverso la paura. E così facendo si diventava persone più consapevoli delle proprie capacità, più strutturate, più pronte per il passaggio successivo, quello del triennio di liceo che ci aspettava da lì a poco.

Sono convinto che nella vita, se siamo fortunati, ci sono persone che possono rappresentare un momento di svolta. Il problema è che si contano sulle dita di una mano (quando va di lusso). Lui è stato la prima che ho incontrato. Alla fine del suo anno, come era arrivato se ne andò. Mi lasciò in dote una promozione a giugno e la voglia di andare avanti. Cosa che feci senza altre interruzioni, esorcizzando con una risata gli spauracchi che trovavo lungo il cammino.

Da allora non l’ho più visto. L’ho ritrovato come tanti altri di quel tempo, su Facebook. Più vecchio (il che è giusto, perché non è che posso invecchiare solo io), ma mi pare ancora con il giusto livello di ironia. La morte di Robin Williams, stanotte, con tutti quei riferimenti a “L’attimo fuggente”, mi ha fatto ripensare a lui e quei miei anni di ragazzo, in cui tutto sembrava così enorme, così possibile e impossibile insieme.
E allora glielo dico qui, adesso, perché non gliel’ho mai detto prima. Grazie, professore. Grazie per esserci stato, in quei mesi e in quel modo. Di quello avevo bisogno, non di altro. Non è necessario salire su un banco per imparare a vedere le cose da un punto di vista diverso, quella è roba da film. Per accendere una luce dentro una stanza buia serve soprattutto umanità. E qualche buona battuta, al momento giusto.

Vaìa

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