Tre regole d’oro

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire cosa volesse fare con quella pistola. La teneva in mano come un oggetto estraneo, che non era in grado di dominare. Cercava di non darlo a vedere, ma non appena era certo che nessuno lo guardasse i suoi occhi, velocissimi, cadevano sulla canna bruna dell’arma. Un batter di ciglia, un movimento da niente, impercettibile. Come a controllare che fosse tutto a posto: la pistola con la canna puntata dalla parte giusta, i clienti terrorizzati immobili davanti a lui (molti con la faccia a terra) e i cassieri, bianchi come stracci, impegnati a riempire freneticamente la borsa che aveva lanciato sul bancone, insieme a poche parole balbettate una dopo l’altra: “Me… mettete den… dentro tutto quello che a… avete!”. Più lo guardavo e più me ne rendevo conto. Eravamo nelle mani di un principiante.
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Spettacolo continuato

Quando sta male una persona che amo, mi tornano in mente di lei i ricordi più strani. Di mia madre, questa mattina, mi è tornata in mente una sua bizzarra abitudine di quando da piccolo mi portava al cinema. Tutte le volte arrivavamo in ritardo, a film già iniziato, e non c’era verso che riuscissi a capire mai del tutto la storia. Anche se era solo un cartone animato o uno di quei film tutto cazzotti di Bud e Spencer che davano solo la domenica, al cinema Star sotto casa, dopo una settimana di soft-porn e commedie spinte (Erano gli anni ’70 e s’usava così. Ancora non era tempo di riconversioni a supermercati o condomini nuovi di zecca. I cine spesso erano luoghi piccoli e ruspanti, che accontentavano tutti).
Di fronte alle mie lamentele, mia madre si lasciava convincere e mi permetteva di restare anche per l’inizio dello spettacolo successivo, per mettersi in pari. Mi ricordo ancora quella sensazione di superiorità che mi prendeva ogni volta che gli altri, quelli arrivati in orario, uscivano dalla sala ed entravano i nuovi spettatori. Le luci che si accendevano e si spegnevano di nuovo. Mi pareva di essere un privilegiato o uno di quelli furbi, che trova il modo di vedersi due spettacoli al prezzo di uno solo (non so nemmeno se oggi sarebbe ancora possibile, ma temo di no…).
Quando ricominciava il film era bello sapere come sarebbe andato a finire prima degli altri. Conoscere già il ruolo e il destino dei personaggi appena si affacciavano sulla pellicola. Mi faceva sentire sicuro, quasi onnipotente. Quando uscivamo dal cinema, al buio come vi eravamo entrati, tutti ci guardavano un po’ strani e a me scappava sempre da ridere.

Vaìa

La macchia

La notai la prima volta in un angolo buio della cantina. Una macchia biancastra come una muffa, che si estendeva per una quarantina di centimetri sul muro opposto alla porta, proprio dove avevamo installato i ripiani per le bottiglie di vino buono, da usare nelle occasioni speciali. Rimasi in piedi per qualche secondo a osservarla. Non mi sembrava di averla mai vista prima, grande com’era non mi sarebbe sicuramente sfuggita, anche se mia moglie mi diceva sempre che non sarei stato capace di trovare l’acqua in un fiume tanto ero distratto. Mi avvicinai per guardarla meglio. Continue reading

Di carcere, indulto e grida di dolore

Immagina di avere una macchina a cui si rompa periodicamente il motore. Perché ha percorso troppa strada, perché ha bisogno di pezzi di ricambio o perché, semplicemente, non ce la fa più. Nella peggiore delle ipotesi dovresti buttarla via e prenderne una nuova. Nella migliore, dovresti farla vedere da cima a fondo da un meccanico di quelli bravi. Di quelli che ti fanno spendere, ma che poi, una volta che ti rimetti in viaggio, ti fanno capire di non aver sprecato i tuoi soldi. E invece tu che fai? Ti fermi, spegni il motore e la lasci riposare. Finché non sarà in grado di trasportare ancora un po’ di gente, fino al prossimo stop.

Un comportamento idiota. Se non fosse che è esattamente quello che accade in Italia, con la questione del sovraffollamento delle carceri. Il sistema è allo sbando. I detenuti vivono in uno stato spesso disumano e la “macchina” del sistema carcerario nazionale è sempre a un passo dalla rottura definitiva. Eppure non facciamo nulla. Spegniamo il motore e facciamo scendere un po’ di gente. In attesa di ripartire, nelle stesse condizioni di prima.

Non lo dico io. Lo dicono i numeri.

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Una giocata inattesa

Se chiudo gli occhi mi pare ancora di vederlo, quel ragazzone alto e sgraziato. Sempre un po’ sovrappeso e indeciso nel suo diventare uomo, fra baffetti di una peluria tenera e scura e la voce che stava diventando piano piano quella di un adulto, ma che ogni tanto cedeva ancora a tradimento agli acuti dell’adolescenza.

Per esempio, me lo ricordo quel giorno sul tram della linea 1 che lo riportava a casa da scuola durante il primo anno di ginnasio, con la mente affaticata dalle lingue morte che era obbligato a studiare con teutonico rigore e il corpo vessato dal peso dell’Invicta blu e giallo fluo ereditato dalle medie e caricato di enormi dizionari di latino e greco.

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Partigiani

Rosso antico

Il primo colpo raggiunse il Rosso alla schiena, mentre stava camminando in fila indiana con i suoi due compagni, Ottobre e Libero, per il lato ovest della collina. Una pugnalata improvvisa in mezzo alle costole, silenziosa come un’ombra. La vista gli si appannò per il dolore, mentre cadeva nel fango umido e molle di quel marzo appena iniziato. Poco prima di toccare terra un secondo colpo gli finì dritto nel polpaccio destro, appena sotto il ginocchio, mettendolo definitivamente fuori combattimento.
Ottobre fu colpito subito dopo e crollò senza neanche il tempo di imbracciare lo sten che portava a tracolla. Se si girava appena sul fianco il Rosso lo poteva vedere, steso a pochi metri da lui, con gli occhi aperti e l’espressione stupita, come se gli avessero giocato un brutto scherzo proprio quando ne aveva meno voglia. Libero fu raggiunto per ultimo e non appena fu a terra il rumore degli spari terminò di colpo per lasciare il posto a un silenzio irreale.
I colpi, superato il primo momento di sbigottimento il Rosso riusciva a rendersene conto, gli erano piovuti addosso dal lato opposto del campo che stavano costeggiando e con tutta probabilità erano quelli di una mitragliatrice di ordinanza delle brigate nere, accompagnati da qualche raro colpo di moschetto. “Brutta storia” – pensò – “Sta a vedere che oggi ci lascio davvero le penne”.

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